Chi ha paura del «Basic English»?
La conoscenza dell'inglese nelle facoltà umanistiche
La riuscitissima tavola rotonda organizzata dall’Accademia della
Crusca ha sollecitato la mia riflessione su un tema che, prima da
studente, poi da impiegato (presso l’Ufficio programmi europei di
un ateneo statale) e da addottorando, infine da docente, ho sempre
considerato fondamentale; un tema che richiama memorie ed esperienze di oltre
quindici anni trascorsi nell’università italiana.
Mi pare che la presenza del professor Azzone abbia orientato l’attenzione di
tutti gli interventi successivi verso il problema della lingua o delle lingue di
cui servirsi per insegnare le discipline scientifiche (nel senso di scienze ‘dure’).
Con argomentazioni diverse, legate alla diversa formazione culturale dei
relatori, è stato difeso il diritto di cittadinanza della nostra lingua come
strumento di formazione e di trasmissione del sapere scientifico.
Nulla si è detto, invece, delle discipline umanistiche. Se è lecito nutrire dei
dubbi nei confronti di una «messa al bando» dell’italiano dalle facoltà
scientifiche, è doveroso prendere atto della deplorevole povertà del repertorio
linguistico di chi frequenta le facoltà umanistiche.
Un problema, di fondamentale importanza ma inaffrontabile in questa sede, è
quello della scarsa confidenza che molti studenti (di tutte le facoltà, immagino)
hanno con l’italiano scritto, retaggio di un sistema scolastico carente di cui
l’università, in particolar modo proprio le facoltà umanistiche, non può non
farsi carico.
C’è poi il problema delle lingue straniere in genere e dell’inglese in
particolare.
Il primo aspetto negativo è costituito dalla deprecabile abitudine, frequente in
molti atenei italiani, di impartire in italiano i corsi di lingua, letteratura e
cultura straniere; abitudine che permette agli studenti dei corsi di laurea in lingue di
completare il proprio percorso di studi senza raggiungere un livello avanzato di
conoscenza degli idiomi in cui si specializzano.
Un secondo aspetto, su cui varrebbe la pena riflettere, è il generale scarso
livello di competenza dell’inglese da parte degli studenti degli altri corsi di
laurea (a parte lingue, dunque) in discipline umanistiche, sia in confronto ai
loro omologhi di altri Paesi europei ed extraeuropei, sia in confronto ai loro
colleghi italiani delle facoltà scientifiche. Questi ultimi, benché in ritardo
rispetto ai fisici, matematici, ingegneri di altri Paesi, sono comunque forzati ad
acquisire, nel corso dei loro studi, una competenza almeno passiva dell’inglese,
unica lingua nella quale sono disponibili molti libri di testo. Questa
competenza cresce e diventa attiva nel caso di coloro che, dopo la laurea
magistrale, affrontano il dottorato di ricerca: partecipano (sia come uditori
sia come relatori) a workshop e convegni esclusivamente in lingua inglese;
scrivono le loro pubblicazioni esclusivamente in lingua inglese; frequentano,
sovente, laboratori e centri di ricerca il cui personale, proveniente da Paesi
diversi, comunica in inglese; alcuni di loro (non tutti, purtroppo) redigono in
inglese la propria tesi finale e nella stessa lingua la discutono davanti a una
commissione internazionale.
Lo stesso non accade agli ‘umanisti’: uno studente di linguistica italiana può
superare un’intera carriera universitaria senza mai studiare un testo che non
sia in italiano; in seguito scriverà la tesi di dottorato in italiano,
frequenterà convegni in italiano (anche ampliando l’orizzonte alla romanistica
potrebbe evitare l’esposizione all’inglese, come testimonia la pervicace
anglofobia dei convegni della Società Internazionale di Linguistica e Filologia
Romanza, favorevole piuttosto a idiomi minoritari come il valenzano o il
provenzale) e si servirà dell'italiano per presentare, oralmente o per
iscritto, i risultati delle proprie ricerche.
Se è vero che le lingue si studiano con le altre lingue, potremmo definire
questo divario «paradosso del linguista e del fisico»: nei confronti del secondo,
il primo si troverebbe in una condizione svantaggiata proprio rispetto a uno
strumento che dovrebbe far parte del suo arsenale scientifico: l’inglese. È un
po’ come se le biblioteche delle facoltà di lettere (i nostri ‘laboratori’)
fossero dotate di microscopi, campioni e reagenti, che mancassero invece in un
laboratorio di fisica o di chimica.
La minor familiarità con l’inglese da parte di letterati, filosofi, storici,
storici dell’arte e perfino linguisti rispetto ai colleghi delle scienze ‘dure’
è un dato che ci deve indignare e allarmare non meno delle possibili ricadute
del «modello Azzone» sulle diverse componenti del Politecnico e sul tessuto
sociale in cui questo centro culturale è inserito. Se è giusto interrogarsi
sulle conseguenze dannose che l’adozione di un modello culturale potrebbe
produrre in futuro, tanto più giusto è intervenire laddove il sistema didattico
tradizionale ha sicuramente già fallito.
Del resto, se l’esperimento del Politecnico di Milano dovesse imporsi su tutta
la didattica delle discipline scientifiche in Italia, il che non credo, ciò non
farebbe che incrementare lo scarto fra la competenza linguistica degli
scienziati, forzati a una convivenza addirittura artificiosa con l’inglese, e
gli umanisti, chiusi nella propria bolla italofona.
Da operatori culturali impegnati nella formazione degli studenti delle facoltà
umanistiche, dunque, dobbiamo chiederci che cosa fare per affrontare questo
problema.
Mi permetto di avanzare qualche proposta.
Innanzitutto l’ovvio:
eliminare la lingua italiana dagli insegnamenti di lingua, letteratura e cultura
straniera (sia quelli destinati agli studenti di lingue, sia quelli destinati
agli studenti di altre discipline: lettere, filosofia, storia, scienze della
formazione, etc. Qualora la competenza linguistica dei docenti italiani non permettesse la
somministrazione di insegnamenti in lingua inglese, ciò sarebbe l’occasione per
provare ad attrarre personale docente straniero, sfruttando come volano il
fascino che l'Italia continua ad esercitare all’estero, soprattutto fra
gli umanisti. Preliminarmente occorrerebbe tuttavia restituire dignità alla
trascurata figura del lettore di lingua straniera9, categoria alla
quale credo appartenga la maggior parte dei docenti universitari non italofoni
attivi nel nostro Paese.
L’apertura all’inglese come lingua di insegnamento
nelle nostre facoltà umanistiche, guidata da buon senso e oculatezza, dovrebbe
avvenire secondo modalità differenti e seguendo schemi variabili, dettati dalle
circostanze. La scelta di impartire un insegnamento in inglese potrebbe essere
suggerita dall’opportunità, da parte di un ateneo, di reclutare un valido
docente anglofono o non italofono. In altri casi sarebbe la natura della
disciplina a orientare la preferenza per l’una o per l’altra lingua: ammesso che
fosse possibile, non avrebbe alcun senso impartire in inglese un insegnamento di
filologia e critica dantesca o di letteratura italiana; non c’è invece ragione
per escludere a priori questa possibilità in un corso di geografia, storia della
filosofia o linguistica generale. I temi di uno specifico programma possono anzi
far pendere la bilancia dalla parte dell’inglese: affrontando la filosofia del
linguaggio di Quine e Davidson, si trarrà giovamento da un approccio ai testi e
ai problemi nella lingua in cui gli uni e gli altri sono stati formulati.
La scelta dell’inglese non comporta necessariamente una rinuncia all’italiano: si
possono prevedere, nell’ambito di uno stesso corso, moduli in lingue diverse (scelte
in base ai criteri appena enunciati); nel caso di una materia impartita su due ‘canali’,
se ne potrebbe prevedere uno in inglese e l’altro in italiano. Iniziative simili,
del resto, sono all’ordine del giorno in Paesi o regioni con bilinguismo sociale
riconosciuto a livello ufficiale (è quanto accade, ad esempio, nella città di
Valencia).
Anche una maggiore apertura alla bibliografia in lingua straniera
avrebbe ricadute positive, sia sul piano delle competenze linguistiche sia su
quello delle competenze culturali.
Le configurazioni possibili sono molte e non
si esauriscono nel mio breve elenco di proposte, meramente esemplificativo:
queste e altre iniziative avrebbero come obiettivo quello di migliorare la
conoscenza dell’inglese della popolazione universitaria, conoscenza che
diventerebbe una condizione necessaria per poterne fare parte, tanto come
studenti quanto come docenti.
Per migliorare il livello di conoscenza
dell’inglese degli studenti italiani, Vittorio Coletti propone di «[p]retendere
che scuola e università diano una perfetta conoscenza dell’inglese, con corsi in
inglese di questa lingua, dalle elementari alla laurea» (vedi p. 5 di questo
volume),
aggiungendo che «[i]l possesso dell’inglese dovrebbe diventare un prerequisito
per l’accesso a qualsiasi facoltà universitaria e tipo di lavoro a contatto col
pubblico». Si tratta di affermazioni condivisibili che tuttavia, a mio parere,
non additano una vera via d’uscita dall’annoso problema. Parlare di prerequisito
per l’accesso a qualsiasi facoltà universitaria, in effetti, equivale a
scaricare sulla scuola non solo la responsabilità del problema, il che può
essere condiviso, ma anche l’onere della soluzione, il che è discutibile e poco
realistico. L’università non può limitarsi a prendere atto del degrado in
cui versa lo stato culturale delle sue matricole, adeguando i programmi alle
loro ridotte competenze, ma deve mettere in atto strategie per compensare, entro
i limiti del possibile, le carenze dovute al sistema scolastico.
Aggiungo un’obiezione di tipo metodologico: l’idea che, esclusivamente
attraverso corsi di LS (impartiti in Italia a classi italofone), si possa dotare
i nostri scolari e studenti di una perfetta conoscenza dell’inglese, mi pare
eccessivamente ottimistica. L’esperienza di apprendente LS/L2 mi suggerisce
l’idea che i corsi in classe, preziosi per impadronirsi dei fondamenti di una
lingua (p. es. la grammatica e il vocabolario di base), sono meno efficaci ai
livelli più elevati di apprendimento (mi riferisco al livello C del Quadro
comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue); quando
l’arsenale di risorse per interpretare e produrre enunciati in LS lo consente, è
utile piuttosto esperire la lingua in situazioni concrete di livello ‘alto’. Non sono sufficienti, cioè,
l’ascolto più o meno passivo di canzoni, o le interazioni elementari di cui si è
protagonisti durante una vacanza all’estero: un ambiente universitario
parzialmente anglofono costituirebbe occasione di confronto con la produzione e
la ricezione di testi scritti e orali complessi, quanto ai contenuti e quanto
alla lingua.
Chiunque abbia imparato una LS (lingua straniera studiata nel proprio Paese) o
una L2 (lingua straniera studiata «sul posto») sa certamente quanto sia utile,
didatticamente, «fare cose con la lingua», in accordo con il noto aforisma di
plurima attribuzione: dimmi e io dimentico; mostrami e io ricordo; fammi fare
e io imparo.
Ci sarebbe inoltre un considerevole vantaggio pratico: un risparmio notevole in
termini di tempo, considerando che la lingua sarebbe esercitata durante
l’acquisizione di altre competenze. Corsi di lingua come quelli cui allude
Coletti precederebbero la didattica anglofona, fornendo gli strumenti di base
per poterne trarre il massimo profitto linguistico, ma potrebbero altresì
affiancarla, colmando eventuali lacune o costituendo momenti di riflessione
metalinguistica su strutture imparate con la pratica e bisognose di una
sistematizzazione a livello teorico.
Desidero concludere questa serie di
riflessioni con un cenno a una varietà linguistica presa di mira da più parti
nel corso della tavola rotonda e del dibattito che l’ha preceduta: il basic
English o, nella formulazione che Massimo Fanfani ha attribuito a Giovanni
Nencioni, «inglese congressuale». Una varietà di inglese internazionale, ‘pidginizzata’,
deculturalizzata e semplificata (per non dire degradata) rispetto al modello
letterario britannico e angloamericano. Nella pratica esclusiva del basic
English, unica lingua veicolare negli ambienti delle scienze ‘dure’, si
anniderebbe il rischio di un impoverimento linguistico e culturale, dovuto sia
alla povertà sia alla funzionalità del codice: proprio quest’ultima, anzi,
demotiverebbe i suoi fruitori dallo sforzo di apprendere altre lingue di cultura,
sforzo che sarebbe percepito come non necessario. Dunque uno studente rumeno del
Politecnico di Milano, così come uno scienziato cinese del CERN, non sarebbero
stimolati ad apprendere l’italiano o il francese, necessari per un’integrazione
effettiva fra comunità accademico-scientifica e comunità linguistica ospite.
Questa tesi, enunciata in più modi e teoricamente ineccepibile, denota tuttavia
la scarsa conoscenza, in chi la sostiene, della prassi linguistica che
caratterizza i centri di ricerca internazionali. A fianco dell’inglese veicolare,
più o meno basic, condiviso dall’intera comunità e usato in via esclusiva nelle
occasioni ufficiali, gli idiomi nativi dei ricercatori continuano ad essere
praticati, all’interno di gruppi più o meno vasti e più o meno omogenei. La
pratica di questi idiomi è anzi il motore di fenomeni, non rari, di interferenza
linguistica: creazione di varietà di compromesso fra lingue affini, sviluppate
ad interim per assolvere a scopi comunicativi pragmatici o ludici (li
chiameremmo pidgin, enfatizzando il fenomeno), ma anche acquisizioni più stabili
e rilevanti. Non di rado in questi ambienti internazionali si imparano nuove
lingue straniere, da quella ufficiale del Paese in cui si trova il laboratorio a
quelle parlate dai colleghi, quando la distanza tipologica dalla propria lingua
materna lo permette: spagnoli imparano l’italiano, italiani imparano il francese,
portoghesi imparano lo spagnolo, inglesi imparano il tedesco. I risultati di
questo apprendistato, irregolare e apparentemente immotivato, possono essere
sorprendenti. Lungi dal frenare le spinte verso il plurilinguismo, il basic English ne costituisce proprio la premessa fondamentale. Le relazioni, umane e
professionali, che veicolano questi processi di apprendimento spontaneo, nascono
grazie a una prima piattaforma linguistica comune; solo in un secondo momento si
attivano scambi di altro tipo.
Avanzo inoltre un’ipotesi, che meriterebbe di essere contestata o confermata con
dei dati: siamo certi che il basic English sia ‘nemico’ del vero inglese e non
possa piuttosto costituire una tappa di avvicinamento a quest’ultimo? «Facendomi
le ossa» sull’inglese scientifico e congressuale, all’università e in ambienti
come quelli poc’anzi evocati, non acquisirò piuttosto risorse che potrò spendere
anche in circostanze diverse? L’abitudine a leggere articoli o a partecipare a
seminari in inglese sarà davvero così inutile allorché mi si metterà fra le mani
un romanzo di Hemingway o mi si regalerà un biglietto di platea per la
rappresentazione di una commedia di Shakespeare?
L’impressione è che le comunità
scientifiche internazionali, cementate attorno all’inglese «deculturalizzato e
pidginizzato», rappresentino oggi alcuni fra gli ambienti culturalmente e
linguisticamente più ricchi, aperti, tolleranti e curiosi.
Il rischio, paradossale, è che le
facoltà umanistiche precludano agli studenti non solo l’accesso al «mercato del
lavoro», ma anche quello alla vera cultura, continuamente invocata per motivare
l’esistenza stessa di tali facoltà. Una parte importante di questa cultura,
oggi, è anglofona; seguire un notiziario della tv statunitense o attingere,
attraverso la rete, a fonti giornalistiche straniere, dovrebbe rientrare fra le
abilità e fra le abitudini di un individuo colto con una formazione umanistica
di ampio respiro.
I linguisti romanzi sono soliti
difendere le ragioni del plurilinguismo: non si vive di sola anglofonia. Mi
riesce tuttavia difficile credere che chi non abbia una solida conoscenza
dell’inglese, nel 2012, possa averne di altre lingue, se non per ragioni legate
a vicende del tutto personali (ad esempio condizioni di bilinguismo presenti in
famiglia).
Ben venga la difesa del
plurilinguismo, favorito e costruito sulla base di una adeguata conoscenza della
lingua franca per eccellenza. In un contesto di ridotte competenze linguistiche
esiste invece il pericolo di asserragliarsi in trincee monolingui; pericolo
tanto più grave considerando una comunità linguistica tutto sommato ristretta e
a carattere quasi ‘nazionale’ come la nostra.
Le iniziative intraprese dal
rettore del Politecnico hanno sollecitato la difesa dello status
dell’italiano quale lingua di cultura e di produzione del sapere. Forse è
possibile andare oltre, cogliendo l’occasione per riflettere sui settori a noi
più vicini: confrontando il modello milanese con quello tradizionale delle
facoltà umanistiche, possiamo arrivare a una felice ed equilibrata sintesi,
attraverso cui rinnovare l’offerta didattica, così come l’anima stessa delle
nostre discipline, a rischio di soffocamento entro sempre più angusti ghetti
culturali e linguistici.
[da
Fuori l’italiano dall’università? Inglese,
internazionalizzazione, politica linguistica, a
cura di
Accademia della Crusca, N. Maraschio, D. De Martino,
Laterza,
Roma-Bari 2012, pp. 155-162]