(2001) 2001. Kamikaze (s.m. e f.)
«La baia di Leyte è diventata un vero cimitero per la flotta aeronavale degli Stati Uniti. E ciò si deve, in molta parte, alle nostre bombe viventi, alle unità Kamikaze». Questa orgogliosa dichiarazione del capitano Etsuzo Kurihara, portavoce della marina nipponica, fu riportata dal “Corriere della Sera” del 6 novembre 1944 e contiene una delle primissime attestazioni della parola kamikaze in italiano. Il capitano si riferiva a un corpo speciale di aviatori, votati alla morte, entrato in azione con successo per la prima volta poche settimane prima, alla fine di ottobre. Molti anni più tardi, il giorno dopo l’11 settembre 2001, kamikaze è tra i vocaboli chiave scelti da giornalisti e commentatori per descrivere il più spettacolare attentato terroristico mai avvenuto: «Né kamikaze, né martiri, ma soltanto stragisti» (“Corriere della Sera”); «Una tragedia politica inconcepibile, che in pochi minuti amplifica in misura spaventosa la folle potenza distruttiva dei kamikaze» (“la Repubblica”); «Le caratteristiche degli attentatori, [...] ossia la follia suicida dei kamikaze, rinviano a una matrice islamica» (“La Stampa”).
Come si sia giunti a quest’accezione estesa è presto detto: fin dalla loro comparsa, nella cronaca degli anni quaranta, i “volontari della morte” (così li definì Mussolini, in un discorso tenuto a Milano a dicembre del 1944) colpirono notevolmente l’immaginazione degli italiani; il vocabolo, attraverso i giornali, entrò nell’uso e fu accolto da dizionari e repertori di forestierismi. Successivamente la parola andò svincolandosi dal proprio referente originario (diventando sinonimo di “attentatore suicida”) per adattarsi alla geografia del terrorismo internazionale; a spostare il teatro degli attacchi suicidi, secondo una prassi che ha toccato l’apice con la strage del 2001, la crisi mediorientale e il fondamentalismo islamico. Il revival di kamikaze non ha risparmiato firme autorevoli o prestigiose – come quella di Oriana Fallaci, che se ne è servita varie volte nella trilogia successiva ai fatti dell’11 settembre – e neppure la titolazione dei libri (cfr. Allam, 2004; Mantovano, 2006). Numerosi gli usi aggettivali della voce, all’interno di locuzioni più o meno stabili: attentato (o attacco) kamikaze, commando kamikaze, bambini kamikaze ecc.; si è parlato di donne kamikaze in occasione delle azioni terroristiche contro il teatro Dubrovka di Mosca (2002) e, più recentemente, contro la metropolitana della stessa città (2010). Negli ultimi anni ci si è spinti anche oltre, arrivando ad applicazioni ed estensioni inaspettate del termine. Nel corso di un’intervista, rilasciata a un quotidiano nazionale (“la Repubblica”, 19 aprile 2010), il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha dichiarato: «Dobbiamo distinguere quello che realmente si sono detti Fini e Berlusconi da quello che vanno dicendo gli altri, i tifosi e i kamikaze che hanno fatto crescere la tensione», dove il vocabolo ha l’accezione figurata di «persona spericolata e temeraria» (devol, 2008 s. v.). Si può bere un kamikaze (con moderazione, se è vero che nomina sunt consequentia rerum) in un qualunque cocktail-bar, sotto forma di mistura a base di cointreau e vodka; e il traslato può arrivare a perdere ogni connotazione negativa e designare, per esempio, un amante che attinge fino all’ultima risorsa per rendere felice la propria donna: metafora di uno slancio generoso e audace, senza ripensamenti, perché «un kamikaze come me / non torna indietro» (Lucio Dalla, Kamikaze).
(FB)
[da Itabolario. L'Italia unita in 150 parole, a
cura di M. Arcangeli, Carocci, Roma, 2010, pp. 284-285]
Riferimenti bibliografici
ALLAM M. (2004), Kamikaze made in Europe. Riuscirà l'Occidente a sconfiggere i terroristi islamici?, Mondadori, Milano.
DEVOL (2008) = G. Devoto, G.C. Oli, Dizionario della lingua italiana 2009, a cura di L. Serianni e M. Trifone, Le Monnier, Firenze.
MANTOVANO A. (2006), Prima del kamikaze. Giudici e legge di fronte al terrorismo islamico, Rubbettino, Soveria Mannelli (cz).