(1937) Rotta s.f.

È quella di Guadalajara. “Lo Stato Operaio. Rassegna di politica proletaria” titola La rotta di Guadalajara un articolo di quest’anno (Anno XI, n. 3-4, Marzo-Aprile 1937, p. 212) che inizia così: «Le divisioni motorizzate mandate da Mussolini in Ispagna per assicurare la vittoria dei generali traditori e dei nemici del popolo spagnuolo, sono state sconvolte dall’esercito repubblicano sul fronte di Guadalajara e messe in fuga». Sono i primi mesi del 1937, quando la guerra civile spagnola sembra ancora potersi concludere rapidamente. Il Duce ha inviato in Spagna un Corpo di Truppe Volontarie, guidato dal generale Mario Roatta, con l'idea di partecipare a poche azioni decisive per la risoluzione del conflitto in favore dei franchisti, senza gravi perdite e con un significativo ritorno sul piano politico e su quello dell'immagine internazionale. In un primo momento le cose sembrano andar bene: il contingente italiano conquista Malaga in tempi sorprendentemente brevi, al punto da far pensare a un rapido e felice esito anche per l'operazione più importante: la presa della Capitale. «Domani a Guadalajara, dopodomani a Alcalá de Henares, e fra tre giorni a Madrid»: con queste parole Roatta ostenta il proprio ottimismo (Rochat / Massobrio 1978, p. 257). Così non va: l'offensiva italiana, dopo una prima serie di successi, è rintuzzata dalle forze repubblicane e dalle Brigate Internazionali nei pressi di Guadalajara. Non ostante un buon equipaggiamento (sulla carta), gli italiani soffrono le avverse condizioni atmosferiche (cattiva visibilità, pioggia, fango), lo scarso appoggio da parte delle truppe nazionaliste spagnole e l'ingenuità dei propri comandanti. La resistenza del nemico è più tenace del previsto e, dopo due settimane di combattimenti, l'offensiva può dirsi conclusa in maniera fallimentare. Scriverà Giuseppe Antonio Borgese (1946, p. 480): «I morti, molti dei quali uccisi dagli stessi compagni che nella confusione avevano perso la testa, si contavano a centinaia [...]. Molti altri, a centinaia, furono fatti prigionieri; altri ancora passarono con entusiasmo dalla parte del nemico in cui riconobbero un fratello; un magnifico bottino di automezzi, munizioni e cannoni cadde nelle mani dei vincitori repubblicani. Questo accadde il 18 marzo e fu chiamata la rotta di Guadalajara». Per l'Italia fascista si tratta della prima, grave sconfitta internazionale, con la quale tramonta ogni possibilità di esercitare un'influenza sul futuro della Spagna franchista. È un'onta che brucia: gli spagnoli (tanto i repubblicani quanto i franchisti) dileggiano l'esercito italiano cantando una canzonetta che riprende il motivo di Faccetta nera: Guadalajara no es Abisina! / porquè los rojos tiran las bombas de pinas, / los italianos se van, se van! / y de recuerdo un cadaver dejaràn! (Guadalajara non è l'Abissinia! perché i 'rossi' tirano bombe a mano, gli italiani se ne vanno, se ne vanno! e per ricordo un cadavere lasceranno). A poco valgono i tentativi di minimizzare l'episodio: Virginio Gayda, sul “Giornale d'Italia”, sottolinea le perdite inflitte al nemico e definisce l'episodio «incerto nei suoi risultati immediati, irrilevante nel vero corso della guerra di Spagna» (cit. in Coverdale 1977, p. 230); parole ben diverse da quelle usate negli stessi giorni da Ernest Hemingway, inviato per la “North American Newspaper Alliance”: «Ho studiato per quattro giorni la battaglia e posso affermare recisamente che, nella storia militare, a Brihuega (piccolo borgo nei pressi di Guadalajara) è riservato un posto accanto alle altre decisive battaglie mondiali» (ibid.). Qualche mese dopo (il 7 giugno), evidentemente lungi dall'essersi spenta l'eco di Guadalajara, tocca a Mussolini in persona (seppure in forma anonima) intervenire sulle pagine del “Popolo d'Italia”, ribaltando la verità storica: «Più che di un insuccesso, deve parlarsi di una vittoria italiana, che gli eventi non permisero di sfruttare a fondo» (ivi, p. 230). È in gioco il prestigio di una nazione soverchiamente ambiziosa, che vorrebbe affidare il proprio prestigio proprio alla forza militare. Les italiens ne se battent pas, recita un vecchio adagio, promosso a lemma dal Panzini nel 1905 (DM1, p. 274). «La grande Guerra e poi l’Italia fascista hanno fatto giustizia definitiva di queste parole»; così si conclude la voce nella prima edizione postuma, uscita nel 1942 a cura di Bruno Migliorini e Alfredo Schiaffini: (DM8, p. 350). L’accusa, di ascendenza cinquecentesca («gratuito dono francese») e incerta attribuzione («La paternità più accreditata è quella del generale Lamoricière»), sarebbe diventata un tratto inconfondibile del carattere italiano, il marchio indelebile di una cronica (o, ancor peggio, strutturale) incapacità di combattere per gli ideali nazionali, per la difesa del suolo patrio, per i colori della propria bandiera; inutili i tentativi di smentite, i tanti “atti di singolare eroismo” di patrioti ed eroi risorgimentali: «Che gli italiani non si battessero, era opinione del generale francese Oudinot, che comandava la spedizione contro la Repubblica Romana del 1849; onde molti atti di singolare eroismo quasi allo scopo di “mostrare ai francesi che anche gli italiani sanno battersi temerariamente” (Emilio Dandolo, I Volontari e Bersaglieri Lombardi)» (ibid.). La viltà italiana è stereotipo duro a morire, che alimenta ed è alimentato per secoli dalla tradizione letteraria prima, cinematografica poi: dal Don Abbondio manzoniano ai protagonisti dei film di Mario Monicelli (dai I soliti ignoti, I nuovi mostri e soprattutto la Grande Guerra). La vicenda spagnola si inserisce perfettamente nel quadro di questo cliché, consegnando alle cronache un impietoso ritratto del soldato italiano incapace di combattere: «per giorni e per mesi dopo la battaglia di Guadalajara fu come se un innumerevole coro di scrittori e disegnatori, da ambo i lati dell'Atlantico, si fossero accordati su questo leitmotiv» (Borgese 1946, p. 480); le poche voci fuori dal coro rimangono inascoltate: «Alcune delle unità italiane – scrive il corrispondente americano Karl H. von Wiegand – combatterono molto valorosamente in condizioni atmosferiche spaventose» (cit. in Borgese 1946, p. 481); anche Hemingway, che pure dà alla battaglia un'enfasi considerevole, prova a sfatare il mito della viltà italiana, spiegando che «gli italiani che difendono il Piave e il Monte Grappa contro l'invasione sono una cosa, mentre gli italiani mandati a combattere in Spagna mentre pensavano di essere destinati a un servizio di guarnigione in Etiopia sono un'altra» (cit. in Coverdale 1977, p. 245); poco influisce sul giudizio la considerazione che «dalla parte repubblicana, v'era un reparto di italiani, il Battaglione Garibaldi, che combatte eroicamente, senza soste, da sei mesi, ed ha contribuito validamente a spezzare la nuova offensiva nemica» (La rotta di Guadalajara, cit., p. 215). Per l'opinione pubblica, gli italiani sono e restano «Los de Madrid», che «fueron los primeros / de entrar en Madrid / pero, prisioneros» (Borgese 1946, p. 482).

(Massimo Arcangeli e Francesco Bianco)

[da Itabolario. L'Italia unita in 150 parole, a cura di M. Arcangeli, Carocci, Roma, 2010, pp. 279-280]

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