Futuro remoto
Per un linguista, futuro
remoto è un titolo molto accattivante, che sollecita
l'intelletto sotto diversi aspetti.
Da un punto di vista retorico,
per esempio, futuro remoto può essere considerato un
elegante crocevia tra figure diverse. Vi si può leggere un
ossimoro, che tende la corda del tempo nelle due direzioni:
il passato, quello remoto, sempre più lontano, e il futuro,
destinato prima o poi a farsi presente. Oppure,
interpretando l’aggettivo in senso meno ristretto, si può
vedere in remoto uno strumento di amplificazione: un
futuro remoto è un orizzonte lontano, che non riusciamo a
scorgere…
Lo stesso linguista osserva
che l’italiano non ha un futuro remoto. La ricca
articolazione temporale della nostra lingua, che tanto mette
in difficoltà i discenti stranieri, è clamorosamente
sbilanciata verso il passato. Il futuro non dispone che di
una forma, più un’altra (il cosiddetto futuro anteriore)
che è possibile usare solo in certi contesti, in
correlazione con la prima. La nostra mano sinistra può
attingere a un’intera tavolozza cromatica, mentre la destra
deve cavarsela con una tinta e mezza.
Mi sono sempre chiesto, in
effetti, il perché di tale lacuna, comune a molte lingue ma,
proprio in virtù della complessa articolazione dei tempi del
passato che caratterizza l’italiano, particolarmente
evidente nella nostra.
Come se il futuro, in fin dei
conti, fosse qualcosa di superfluo; una specie di appendice
linguistica, traccia semiatrofizzata di una funzione che era
e che non è (quasi) più.
Eppure, alcune delle più
rimarchevoli narrazioni che la letteratura e il cinema
ricordino, da 1984 a Roma senza papa, da
Guerre stellari a Blade runner, sono ambientate
nel futuro: un futuro prossimo oppure, più spesso, un futuro
remoto. Nessuna di queste storie, tuttavia, fa largo
uso dei tempi del futuro. L’avvenire, realistico o
fantastico, ottimista o distopico, è sempre narrato
immaginando un punto di vista ad esso posteriore: come se si
trattasse del passato, dunque.
Mi sono sempre domandato come
sarebbe raccontare il domani dal punto di vista presente:
usando i tempi verbali canonici. Anni fa mi ero ripromesso
di provarci: avevo anche scelto il titolo di un racconto per
cui, avendone già abbozzato l’architettura temporale, mi
mancavano solo i contenuti: un dettaglio da poco, per un
saggio di narrativa sperimentale.
Domani avverrà, questo
il titolo che avevo coniato, si sarebbe svolto in un futuro
prossimo, quasi presente: ventiquattr’ore dopo il momento
dell’enunciazione. Sarebbe potuto cominciare così: Domani
mi sveglierò alle sette, come sempre. Avrò l’impressione che
in realtà sia più tardi, poiché il sole, già alto nel cielo,
tintinnerà luminoso contro le imposte, infilando il suo
riverbero negli interstizi. Non mi preoccuperò più di tanto:
è un’impressione ricorrente, a certe latitudini e a certe
longitudini. Ci sono abituato. Meno ricorrente, piuttosto,
il fatto che non avrò sonno, contrariamente a quanto spesso
mi accade.
Sarebbe stucchevole? Non lo
so. Che io sappia, finora non ci ha mai provato nessuno e,
dunque, il mio incipit virtuale è il primo esordio di
questo tipo.
La domanda di partenza,
comunque, resta: perché esistono tanti tempi per raccontare
il passato, che è unico, mentre per immaginare gli infiniti
futuri possibili abbiamo solo un tempo a disposizione? Ha a
che fare col fatto che, umanità conservatrice, siamo più
inclini a rivolgerci all’indietro piuttosto che a lanciarci
a capofitto nell’avvenire? Sono meri fatti di lingua o
rispecchiano qualcosa di più profondo, se qualcosa di più
profondo della lingua esiste?
Quale che sia la risposta,
futuro remoto, per il linguista, ha anche un altro sapore:
quello dell’autobiografia. Per un ricercatore il futuro
remoto è innanzi tutto il proprio: remoto perché nasconde le
risposte alle quotidiane istanze; remoto perché incerto e
imperscrutabile, remoto perché lo vedi e non lo vedi,
beffardo, additare percorsi tortuosi, che si perdono nella
nebbia del tempo.
(da A.A.V.V.,
Futuro remoto, Associazione Culturale Energheia, Matera
2014, pp. 41-42) |
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