I poveri (la plebe cittadina, i
contadini) entrano in contatto con la produzione
artistica unicamente nelle chiese. Le chiese sono
decorate con iconografie che illustrano la vita del
santo a cui sono dedicate e altri elementi più
genericamente legati alla fede, come la vita e la
morte di Cristo, l’Inferno, il Paradiso, la Madonna,
i principali santi. Le città più ricche decorano
con opere d’arte anche alcuni edifici pubblici come
fontane, ponti o il palazzo del Comune.
I poveri, non sapendo né leggere né
scrivere, sono esclusi dalla lettura dei testi. La
loro cultura è orale. I testi (racconti,
poesie, canzoni, barzellette, indovinelli,
filastrocche, ecc.) sono inventati o rimaneggiati
da personalità anonime, e si diffondono senza essere
mai trascritti. Esistono anche dei professionisti,
i giullari, che si esibiscono nelle strade e
nelle piazze, cantando storie epiche, alcune anche
molto lunghe (per es. racconti semplificati delle
gesta dei cavalieri, chiamati cantari). Nella
veste originale con cui i giullari presentano i
propri testi bisogna vedere anche il nucleo di
future forme teatrali. Il teatro regolare, con un
copione, come era esistito nell’antichità o come
esiste oggi, nel Medioevo è praticamente sconosciuto.
Un’espressione interessante della
cultura popolare è il
carnevale, la festa
che precede il lungo periodo di digiuno e
contemplazione (quaresima) prima della Pasqua. Il
carnevale serve anche per sfogare, in modo
controllato, il malessere sociale: durante questa
festa, la gente può rappresentare un mondo alla
rovescia, irridere le autorità laiche ed
ecclesiastiche, parodiare i signori, mettere in
scena i tabù (concetti di cui solitamente non si
potrebbe neppure parlare), far trionfare gli istinti
corporali. Si cantano canzoni sul sesso, sul cibo e,
più in generale, sulle necessità del corpo; la gente
balla, canta, si ubriaca, organizza giochi anche
violenti.
La cultura orale si diffonde
attraverso i
volgari, cioè
le tante lingue locali presenti in Italia. Siccome
la mobilità di persone e le relazioni culturali sono
molto limitate, i volgari sono molto specifici e
cambiano moltissimo da una città all’altra. Alcuni
volgari producono testi di un certo valore.
Nell’Italia settentrionale esiste, nel Due-trecento,
anche una lingua franco-veneta, puramente letteraria
(non parlata) in cui vengono scritti alcuni romanzi
cavallereschi: in pratica, si tratta del francese
arricchito di espressioni proprie dei volgari
veneti. Importanti sono inoltre il volgare umbro
(per la poesia religiosa), il siciliano (per la
poesia d’amore), i volgari lombardi (per la poesia
didattica), ecc. Solo il volgare fiorentino,
comunque, grazie all’autorità di Dante, Petrarca e
Boccaccio, si imporrà nel tempo come vera e propria
lingua letteraria (la lingua che oggi chiamiamo
italiano) dell’intera penisola e ridurrà tutte le
altre parlate a ‘dialetti’, ma sarà un processo
molto lungo e complesso (terminato solo all’inizio
del Cinquecento). Ancora nel Trecento (quando Dante
ha ormai scritto la sua Commedia) si scrivono
in Veneto alcuni poemi cavallereschi in francese: si
sceglie cioè di adottare una lingua straniera che ha
però alle spalle, nell’ambito del poema
cavalleresco, un’antica tradizione.